Louis nacque in una famiglia talmente povera che la mamma per sbarcare il lunario era spesso costretta a prostituirsi.
Il papà lo abbandonò ancora in fasce. A causa delle condizioni di estrema indigenza e disagio, il piccolo fu costretto a lasciare la scuola per aiutare la famiglia.
Tormentato oltre che dai problemi economici anche dal razzismo crescente nella sua città, New Orléans, Louis viveva di espedienti e girava per i bassifondi in cerca di fortuna, come altri bambini afroamericani.
Nelle sue peregrinazioni alla ricerca di un lavoro, il piccolo un giorno, all'età di sette anni, si imbatté in una famiglia povera di immigrati ebrei russi, i Karnofsky.
La signora Karnofsky, mossa da compassione per quel bimbo smunto e dalla bocca di dimensione spropositata, lo portò a casa, gli offrì un piatto di minestra calda e un letto dove passare la notte.
Per la prima volta nella sua vita, raccontò anni dopo Louis, fu trattato con gentilezza e tenerezza.
Nonostante la giovane età, Louis si dava da fare aiutando i due figli della famiglia Karnofsky a caricare il carbone sul loro carro per poi venderlo in cambio di un secchio di nichel.
Una volta, dopo aver ottenuto il metallo, il signor Karnofsky regalò a Louis un corno di latta.
“Fu il regalo più bello che mi potessero fare”, scrisse con entusiasmo nella sua autobiografia anni dopo.
Proprio il suono di questo arnese fu per lui l’inizio del suo interesse per gli strumenti a fiato.
Accomunati dalle sofferenze patite a causa del contesto xenofobo e razzista dell’America di quegli anni, siamo agli inizi del Novecento, Louis si affezionò molto ai Karnosfky.
Trovò in quella famiglia ebraica che lo accolse come un figlio l’affetto e la sicurezza di un focolare domestico che non aveva mai avuto prima.
Papà Karnosfksy insisteva ogni volta che si fermasse a cena con loro e quando Louis rimaneva anche a dormire mamma Karnofsky gli cantava ninna nanne russe.
In seguito imparò a suonare e cantare diverse canzoni russe ed ebraiche e, diventato un musicista e compositore professionista, usò queste melodie ebraiche come ispirazione nella composizione di suoi brani.
Dai Karnofsky Louis imparò le tradizioni ebraiche, l’yiddish (che parlava fluentemente), e una volta diventato famoso non si dimenticò mai della fortuna avuta durante la sua tormentata infanzia in bilico fra l'emarginazione e la delinquenza nell'incontrare questa povera ma calorosa famiglia, tenendo sempre al collo la stella di David, come segno della sua gratitudine verso i suoi benefattori ebrei.
Il Louis di cui sto scrivendo è Louis Armstrong, conosciuto anche come 'Satchmo', soprannome associatogli fin da ragazzo per la dimensione spropositata della sua bocca, uno dei più grandi jazzisti e dei più influenti musicisti del secolo scorso.
Mi chiamo Lucio, sono nato nel 1943 e sono un musicista.
Nel 1965 conosco Giulio Rapetti, in arte Mogol, che decide di scrivere i testi della mia musica.
Nel 1967, “29 settembre”, cantata dall’Equipe 84, è la nostra prima canzone che arriva al primo posto nella Hit Parade.
Giulio crede anche nelle mie qualità di cantante e mi convince ad interpretare i nostri brani.
Nel 1969, “Mi ritorni in mente” vende 25.000 copie al giorno.
Nel 1970 scriviamo “Emozioni”.
Nel 1971 sei nostre canzoni occupano stabilmente le prime dieci posizioni della Hit Parade.
Nel 1973 nasce mio figlio Luca e due fotografi entrano in clinica fingendosi infermieri, aggredendo mia moglie Grazia Letizia che aveva appena partorito.
Rifiuto due miliardi di lire da Gianni Agnelli per esibirmi al Teatro Regio di Torino e canto, di nascosto e senza compenso, per i degenti dell’Istituto Nazionale dei Tumori.
Nel 1975, a Milano, tentano di rapire il mio unico figlio e solo grazie all’intervento dei passanti si scongiura il peggio.
Negli anni Ottanta vengo colpito da una irreversibile malattia dei reni, che porta al loro rapido deperimento.
Per anni mi sottopongo a dialisi a giorni alterni.
Un giorno volo a Parigi per un trapianto, ma il nuovo rene rigetta e devo ricominciare.
Nel 1998 la situazione precipita, mi diagnosticano un male e vengo ricoverato all’Istituto San Paolo di Milano.
Non conta che la mia discografia completa sia rinvenuta in un covo delle Brigate Rosse.
Non conta che io abbia venduto nel mondo oltre 25 milioni di dischi.
Non conta che David Bowie mi abbia definito il migliore cantante del mondo.
Non conta che Paul McCartney conservi tutti i miei album.
Non conta che Pete Townshend consideri “Emozioni” un capolavoro.
Giulio, in ospedale l’ultimo giorno mi fa recapitare un biglietto e io mi commuovo.
Nel sistemarmi i tubi al corpo, il medico si emoziona e mi confessa che per lui sono un mito.
Volo via il 9 settembre 1998 a 55 anni, quando mi mancano due esami alla laurea in matematica.
Sono stato Lucio Battisti, un Angelo caduto in volo, davanti a me c’è davvero un’altra vita e sono ora qui nei cieli immensi dell’immenso amore, felice di avere cambiato le vostre vite, rendendole migliori.
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